don Leonardo Salutati
Stampare moneta non fa ripartire la crescita
Stampare moneta non fa ripartire la crescita
di Gianfranco Fabi
Dal 9 marzo la Banca centrale europea con la collaborazione delle banche nazionali ha iniziato il tanto decantato programma di “quantitative easing” sulla scia di quanto attuato negli ultimi anni dalla Fed, la banca centrale americana.
Innanzitutto è bene sottolineare che “quantitative easing” (QE) significa letteralmente “alleggerimento quantitativo”, una definizione abbastanza oscura che nasce dal linguaggio degli economisti americani, tanto ricchi di fantasia sul piano lessicale e delle forbite analisi, quanto poveri di idee capaci di andare oltre e le argomentazioni matematiche.
In pratica con questa iniziativa le banche centrali acquistano, pagandoli al prezzo di mercato, strumenti finanziari (titoli di Stato e obbligazioni societarie) in modo da aumentare la liquidità in circolazione nella speranza che questa liquidità possa passare dagli istituti di credito alle famiglie e alle imprese. La Bce stampa quindi carta moneta e la mette a disposizione del sistema economico.
Gli obiettivi, oltre a quello di facilitare i finanziamenti, sono:
1) riportare l’inflazione, in questo periodo quasi inesistente, verso quota 2%;
2) cercare di far svalutare l’euro soprattutto nei confronti del dollaro in modo da facilitare e rendere più competitive le esportazioni;
3) mantenere bassi i tassi di interesse in modo da spingere i privati ad investire, direttamente o indirettamente, nelle attività produttive.
Tutto bene quindi. Si, certo, tutto bene… tranne un piccolo particolare. A far girare l’economia non è il denaro, ma sono le scelte libere, spontanee, spesso irrazionali ed arbitrarie delle milioni di persone che compongono il mercato. Il motore della crescita è innanzitutto la fiducia, la prospettiva di poter avere un futuro migliore, la volontà di rischiare, la capacità di intravedere soluzioni nuove per i problemi nuovi.
L’esperienza americana del QE è stata positiva perché ha potuto innestarsi su di una società in cui c’è grande dinamismo, in cui il merito viene premiato, in cui la crescita demografica resta significativa anche grazie all’alto numero di immigrati provenienti praticamente da tutto il mondo. Non è un caso che tutte le innovazioni degli ultimi decenni siano nate in America: da internet all’i-phone, dai software applicativi all’automobile senza guidatore.
L’Italia è invece di fronte ad una contrazione demografica (ed è questo uno dei segni più evidenti della mancanza di fiducia nel futuro), ha capacità innovative sviluppate solo in settori di nicchia, ha un peso particolarmente forte degli oneri fiscali e previdenziali sulle imprese.
L’economia è come un automobile: per muoversi ha bisogno che tutte e quattro le ruote girino. Il denaro è una ruota, ma le altre sono la fiducia, un contesto favorevole, un mercato in crescita. Quest’ultimo punto è particolarmente importante perché uno dei maggiori fattori di debolezza dell’Italia è il calo della domanda interna dovuto a fattori strutturali, come l’invecchiamento della popolazione e il fatto che nascano ogni anno un numero di bambini che è esattamente la metà rispetto agli anni ’60 del secolo scorso, insieme a fattori congiunturali e in particolare alle politiche di austerità necessarie per rimediare agli eccessi di spesa, e di debito pubblico, degli anni ’80 e ’90.
Di fronte a questi problemi, il fiume di denaro della Banca centrale europea rischia di creare non solo pericolose illusioni, ma anche ulteriori fattori di instabilità. Illusioni perché senza interventi di rilancio strutturale, per esempio aiutando di più e meglio le famiglie, la domanda interna difficilmente potrà ripartire. Instabilità perché, come hanno dimostrato molti episodi negli ultimi anni, la troppa finanza rischia di avvitarsi su se stessa creando pericolose bolle speculative.
Il denaro deve restare uno strumento per far funzionare meglio il mercato. Se diventa un idolo cominciano, o continuano, i guai.
San Tommaso d’Aquino
San Tommaso d’Aquino
La parola di Gesù "Voi siete la luce del mondo" si può applicare a molte vocazioni cristiane ma è particolarmente adatta a un santo come Tommaso d'Aquino i cui scritti illuminano ancora oggi il pensiero cristiano e tutto il pensiero umano
La prima lettura ci fa intravedere qual è la condizione per poter essere la luce del mondo; non si tratta semplicemente di usare la propria intelligenza per ricercare il segreto delle cose ma prima di tutto di mettere la propria intelligenza in relazione con Dio. "Alla tua luce vedremo la luce" dice un salmo: per vedere la luce presente nella creazione di Dio bisogna essere in rapporto con lui. Ecco perché non esiste vera sapienza senza preghiera. "Pregai e mi fu elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della sapienza" (Sap 7,7>.
Tommaso d'Aquino è stato un santo contemplativo: il suo ideale era trasmettere agli altri le cose che egli stesso aveva contemplato, cioè capite nella preghiera, capite nel rapporto con Dio. L'intelligenza da sola può certamente fare molte cose, costruire sistemi di idee, ma sono sistemi che non corrispondono alla sapienza, hanno un effetto devastatore. Qualcuno ha detto che il mondo moderno è completamente disorientato perché gli sono state date idee cristiane impazzite. L'aspirazione alla verità, alla libertà, alla fraternità sono idee cristiane sono aspirazioni evangeliche ma se si cerca di soddisfarle prescindendo dal legame vivo con Dio il risultato è quello di mettere negli uomini una specie di febbre che impedisce di trovare il giusto equilibrio e spinge a tutti gli eccessi: ecco le rivoluzioni violente, i turbamenti continui...
Invece san Tommaso d'Aquino è sempre rimasto profondamente unito a Dio, ha pregato per ottenere quell'intelligenza vera, dinamica, equilibrata che proviene dal creatore; per questo ha potuto accogliere anche idee pagane. Non ha avuto paura di studiare Aristotele e di cercare nelle sue opere luce per capire meglio il mondo creato da Dio. Lungi dall'essere propagatore di idee cristiane impazzite egli è anzi riuscito a rendere sapienti le idee pagane; è stato aperto in modo straordinario a tutta la creazione di Dio a tutte le idee umane proprio perché viveva intensamente il suo personale rapporto con Dio. "Mi conceda Dio di parlare secondo conoscenza e di pensare in modo degno dei doni ricevuti" dice il Libro della Sapienza (7, 15): il rapporto con Dio non ririipicciolisce il cuore, non rattrappisce l'intelligenza, anzi dà il gusto di penetrare in tutti gli splendori della creazione.
San Tommaso d'Aquino ha avuto la vocazione di far vedere che tra sapienza umana e messaggio cristiano è possibile una profonda conciliazione che avviene quando si è rinunciato all'autonomia umana per darsi tutto a Dio: si è completamente all'unisono con il creatore ed egli ci mette profondamente in accordo con la creazione.
Domandiamo al Signore che apra il nostro spirito ad accogliere in pieno la sua luce in modo da poter attirare quelli che ne sono in ricerca; che siamo davvero anime viventi del rapporto con Dio e proprio per questo capaci di orientare verso tutte le ricchezze dell'universo.
San Tommaso d'Aquino..
Noi vogliamo bene a Gesù e seguiamo solo Lui!
Vicino a Mosul gli islamisti dell’Is, nei giorni scorsi, hanno catturato quattro ragazzi cristiani e hanno comandato loro di pronunciare la “Shahada”, la formula di conversione all’Islam.
Avrebbero salvato la pelle. Ma i quattro ragazzi hanno risposto: “noi vogliamo bene a Gesù e seguiamo solo Lui”. Così li hanno presi e li hanno decapitati.
Questo macello, denunciato con le lacrime agli occhi al Christian Broadcasting Network dal canonico anglicano Andrew White, non ha avuto quasi nessuna eco sui media (non sono mica l’orso del Trentino). Ma anche nella Chiesa.
In altri tempi tutti i cristiani commossi li avrebbero subito venerati come martiri e santi. Oggi, in tempi di ecumenismo selvaggio, ci sarà perfino chi li considererà dei fanatici.
Ecco L’Agnello di Dio….
«Ecco L’Agnello di Dio….» (Gv 1,36)
La ricerca della volontà di Dio ha bisogno di mediazioni umane e soprattutto di mediatori umani: di maestri, cioè persone capaci di fare ed essere segno, capaci di orientare il cammino di una persona, e di padri, cioè persone capaci di generare alla vita secondo lo Spirito. La fede non si trasmette per via intellettuale, ma all’interno di relazioni umane.
Nella relazione di paternità spirituale non è essenziale cercare una persona “straordinaria” come guida, ma rimanere fedeli a colui che si è scelto: il vecchio Eli non brilla per discernimento né per fermezza, ma al di là delle sue qualità personali, è la relazione fedele con lui che consente a Samuele di arrivare a passare dal “padre” a Dio.
Spesso è la fedeltà del “figlio” che crea il “padre”. Il padre spirituale è persona umile che non se-duce, non attrae a sé, non tiene i discepoli stretti a sé, ma li e-duca, li conduce all’adesione teologale, si fa maestro di libertà guidandoli alla relazione personale e ineffabile con il Signore. È uomo conscio dell’importanza dei limiti, che sa porli a colui che guida e rispettarli egli stesso. Solo chi vive non per se stesso, ma per il Signore, potrà aiutare altri a vivere per il Signore e a liberarsi dalla volontà propria.
Giovanni, indicando ai suoi discepoli Gesù quale Agnello di Dio, di fatto suggerisce loro la via da prendere e diviene attore di una relazione sacramentale: l’incontro con Giovanni guida a Cristo. Testimonianza mirabile di libertà che pone in crisi la riduzione della fede a servizio ecclesiale o a impegno pastorale o, molto peggio, a dedizione e asservimento a un leader carismatico o preteso tale.
“Che cercate?”. Queste le parole che Gesù rivolge ai due discepoli che hanno preso a seguirlo. È una domanda importante per noi oggi. Qualità essenziale del cristiano, ma non solo, di ogni uomo è infatti il cercare Dio.
Buon Pastore - Tempera all'uovo, tav. 60x70..
Attendere: voce del verbo amare
Dio, tu hai scelto di farti attendere
nel tempo di Avvento.
Io non amo attendere. Non amo fare la fila.
Non amo aspettare il mio turno.
Non amo attendere il bus.
Non amo aspettare il semaforo verde.
Non amo attendere prima di giudicare.
Non amo attendere il momento giusto.
Non amo attendere perché non ho tempo.
E questo è il tempo del tutto e subito:
in un secondo mando un messaggio ed è già arrivato,
in un lampo mi vesto e vado a scuola spettinato,
in un istante ho fame e brontolo con mamma se non è pronto...
Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi.
Ma tu, Dio, hai scelto di farti attendere,
perché tu hai fatto dell’attesa il tempo della conversione,
il faccia a faccia con ciò che è nascosto.
Attende solo chi sa amare.
Anacoreta siriano
Un monaco egiziano disse a un anacoreta siriano, tutto eccitato, che voleva andare in città a vedere un santo che operava miracoli e che, con la sua preghiera, risuscitava i morti.
L'altro monaco, sorridendo disse: "Che strane abitudini avete da queste parti: chiamate santo chi piega Dio a fare la propria volontà. Da noi invece, chiamiamo santo chi piega la propria volontà a quella di Dio".
Anacoreta è detto un religioso che abbandona la società per condurre una vita solitaria dedicandosi all'ascesi, alla preghiera ed alla contemplazione.
Ritrovare il gusto perduto della vita
Ritrovare il gusto perduto della vita - La seconda volta di Rut
Si può essere ancora felici dopo un fallimento affettivo, un abbandono, un lutto? La Bibbia non risponde in modo assertivo ma racconta storie dove la speranza filtra lentamente squarciando le tenebre del non senso. La sapienza biblica sa che la risurrezione può essere annunciata solo dopo aver sostato negli abissi della storia. Un annuncio troppo veloce del risorto rischia di rimuovere il dolore, il fallimento, il vuoto, senza curare. Una risurrezione frettolosa non ci salva dall’abisso, piuttosto ci schiaccia.
Il tempo del cordoglio, della rabbia, dell’attesa è lo spazio delle nostre storie prese sul serio con le loro ferite. La risurrezione non è uno schiacciasassi che annulla il dolore negandolo... essa ci raggiunge laddove siamo, entra nell’inferno del nostro cuore, lo abita per risollevarci. Ricominciare, ritrovare il gusto perduto della vita, scoprire che c’è ancora un orizzonte oltre il nostro cielo chiuso è l’itinerario suggerito da un Dio tenace che apre, discretamente, storie apparentemente chiuse. Un Dio che si ostina a ricominciare con il creato e con il suo popolo, nonostante i fallimenti.
Ricominciare non significa dimenticare il passato, ma trasformare il fallimento in risorsa. Un Dio che non inchioda le nostre vite alla condanna, piuttosto ci suggerisce altre strade che i nostri occhi, annebbiati dal pianto, non scorgono. Proprio come Agar che, nel deserto, si prepara a morire di sete, anche noi, nel dolore, non siamo in grado di vedere quella fonte che può dissetarci e salvarci, se Dio non riapre i nostri occhi.
A volte quest’apertura di sguardo avviene come rivelazione, più spesso è esperienza graduale di cui solo alla fine del percorso si ha piena consapevolezza, come per i due discepoli di Emmaus, come per Rut, la vedova moabita. La vicenda di Rut racconta di una felicità che entra in punta di piedi in una nuova storia. Essa ha bisogno di un mantello per coprirsi il volto, non può svelarsi totalmente. Necessita di maturare lentamente, proprio come il grano che fa da sfondo al racconto. Narra la felicità che incontra Rut quando le è dato di re-innamorarsi.
La vita le aveva rubato l’amore e la speranza, lasciandola sola e senza fiato, dopo la morte del marito. Poi, però, i suoi occhi hanno incontrato quelli di un altro uomo che l’ha guardata con sguardo innamorato e tutto è cambiato. Un corteggiamento discreto: piccoli gesti di cura, parole cordiali, che lentamente riaccendono il desiderio. Rut ha le mani segnate dalla fatica. È bella, non di quella bellezza acerba che rende gli occhi luminosi e sognanti, non è spavalda come la sulamita del Cantico. È una donna disillusa, ferita dalla vita. E tuttavia non si è ancora arresa al cinismo come sua suocera Noemi.
Rut non ha nessuno che la mantenga: ha perso il marito, la sua gente e non ha neppure un figlio che possa regalarle un prestigio sociale e aiutarla a dare senso a quell’amore perduto. Di questo però non accusa Dio. Da dove le viene quella forza che la spinge a restare accanto alla suocera mentre tutto crolla? Da dove le viene l’audacia di ricominciare in una terra nuova, affidando il suo destino a una donna ancora più fragile di lei? Da dove le viene la forza per rimanere accanto a chi ormai non ha più nulla? Rut è ancora una donna avvenente. Una bellezza pesante da portare, ora che non c’è più il suo uomo a fianco. Rischia di essere importunata mentre spigola nei campi.
In un paesaggio agreste, solo apparentemente sereno, si snoda la vicenda della nonna del re Davide. È lì che incontra Boaz. Lui ha tanti anni sulle spalle e non si illude di piacere. Non crede che qualcuna lo possa preferire a un giovane. Ha una buona posizione sociale; questo, però, sembra non bastare a renderlo felice. Aveva notato la bella moabita; tuttavia non osava farsi avanti, poiché sapeva delle sofferenze che affliggevano la donna. Ma più forte delle paure è l’amore. È Rut a prendere l’iniziativa. Si intrufola nel giaciglio di quell’uomo maturo, gli dona calore e lo sorprende con quella richiesta audace: «Sposami». Rinasce allora lo stupore: lui si sente scelto, lusingato da quella donna che nel buio ha osato stendersi accanto a lui. Si sposeranno, Rut e Boaz, e nasceranno figli e figlie.
La storia di Rut è una ripresa, un nuovo inizio che non pretende di cancellare il passato ma è in grado di fasciare il cuore rotto. Ecco perché tanta insistenza sul doloroso preambolo che fa da cornice all’incontro con l’amato. Per capire come una storia possa riprendere, dopo il dolore e la paralisi della morte, è necessario un cammino complesso. Forse il viaggio in quella terra straniera, dove Rut accetta di seguire la suocera, è stato anche un cammino interiore nel deserto dell’anima, nella carestia di un cuore consumato dalla sofferenza.
Lo scoprirsi straniera in una terra nuova ben rappresenta l’anima disorientata dopo il lutto di una donna che deve ridefinire tutta la sua esistenza. Eppure, la morte è inscritta in ogni storia d’amore. Chi ama sa che può un giorno perdere l’amato, ritrovarsi nella solitudine. E tuttavia, proprio chi ama, più di qualsiasi altro, rimuove la morte. Occorre allora un lungo viaggio interiore per imparare a vivere e camminare nella nuova realtà. Il lutto, come una separazione, un divorzio, muta le geografie esistenziali.
Nella storia di Rut non tutte le ambiguità sono sciolte. Proprio come succede a chi ama una seconda volta e porta con sé le pesantezze del passato, le cicatrici assieme allo stupore. Una meraviglia diversa da quella che si accende nel primo amore. Rut ora guarda alla vita con lo stupore di chi ha ricevuto un dono inatteso, di chi «era come morta, ed è tornata in vita, era perduta ed è stata ritrovata». La seconda volta di Rut è una risurrezione. Una seconda possibilità è un altro modo per dire la Grazia! Forse questa non riuscirà a salvare il mondo, ma qualche volta il suo fascino sprigiona una passione che perfora i muri e scioglie il ghiaccio. Rut ha saputo riaprirsi alla vita e risvegliare nel cuore di un uomo straniero una primavera dimenticata.
Lidia Maggi
(articolo tratto dal settimanale Riforma)
Ruth glanant dans les champs de Booz, Alexandre Cabanel (1886), Musée Garinet.
Ruth nel campo di Boaz, Julius Schnorr von Carolsfeld (1828), National Gallery (Londra)
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio
“Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio”
All'età di 12 anni, Gesù resta a Gerusalemme. Non sapendolo, i genitori lo cercano con ansia e non lo trovano. Lo cercano “fra i parenti”, lo cercano “nella carovana”, lo cercano “fra i conoscenti”, ma fra tutti questi non lo trovano... Il mio Gesù non vuole essere trovato nella folla.
Senti dunque dove l'hanno trovato... perché anche tu possa trovarlo: “A forza di cercarlo, lo trovarono nel Tempio”. Non in un posto qualsiasi, ma “nel Tempio”, e non semplicemente nel Tempio, ma “seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava”. Anche tu, cerca Gesù nel tempio di Dio, cercalo nella Chiesa, cercalo presso i maestri che si trovano nel tempio e non ne escono. Se cerchi in questo modo, lo troverai...
Lo trovano “seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava”. Ancora adesso Gesù è lì; ci interroga e ci ascolta parlare. “Tutti erano pieni di stupore” dice Luca. Cos'è che li stupiva? Non tanto le sue domande, che pure erano mirabili, ma le sue risposte... “Mosè parlava – dice la Scrittura - e Dio gli rispondeva con voce di tuono” (Es 19,19). Così il Signore insegnò a Mosé ciò che non sapeva. Gesù interroga, Gesù risponde..., e per quanto sono mirabili le domande, le risposte sono ancor più mirabili.
Perché anche noi possiamo sentirlo e ci faccia delle domande a cui lui stesso risponderà, supplichiamolo, facciamo il grande e doloroso sforzo di cercarlo, e potremo allora trovare chi cerchiamo. Non è senza motivo che la Scrittura dice: “Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo”. Occorre infatti che chi cerca Gesù non lo faccia con negligenza e mollezza, senza costanza, come fanno alcuni... e che, per questo, non lo trovano. Quanto a noi, diciamo: “Con angoscia ti cerchiamo”.
Origene (ca 185-253), sacerdote e teologo, Omelie sul Vangelo di Luca, n° 18; SC 87
Eugène Burnand, Pietro e Giovanni accorrono al sepolcro la mattina della Resurrezione.
Maria e Giuseppe, come Pietro e Giovanni, si misero a cercarlo con ansia ed affanno. Anche noi diciamo: “Con angoscia ti cerchiamo”.
In questo dipinto, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro la mattina della Resurrezione: i volti segnati da un estremo realismo pittorico esprimono sentimenti diversi; Giovanni, la fede, trepida con lo sguardo e le mani e spera, è fiducioso: era sotto la croce di Gesù.
Pietro è drammaticamente segnato in volto, quasi a consegnarci le sue ansie, le sue paure, il tormento di aver rinnegato il Mestro...
Grande opera di un pittore svizzero vissuto a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, Eugéne Burnand (1898, museo d'Orsy).
Significativo il vento, che qui non sembra ancora soffio dello Spirito (non è Pentecoste), ma un turbine, un vortice, che scuote capelli, corpo e cuore.
Amerai il prossimo tuo come te stesso
"Amerai il prossimo tuo come te stesso" ....
"Come te stesso". "Come". Prima ama te. Vivi te stesso!
Come fare mi dirai?
Vivere è trovare il tempo di abbracciare i propri figli, di stare accanto a persone amiche, di chiacchierare con mamma e papà (anche se è faticoso), di lasciarsi sorpassare in autostrada, vivere è abbandonarsi, è dire: "Questo sono io: mi piaccio. Complimenti!", è bagnare i fiori in giardino, accarezzare un gattino, dipingere un sorriso coccolando un anziano. Vivere è continuare a piantare ulivi anche a ottant'anni con la speranza di vederli un giorno fiorire.
"Ogni persona è un abisso. A guardarci dentro ti vengono le vertigini" - è l'espressione innamorata del poeta arabo nel film La tigre e la neve. Abisso, vertigini, follia: l'estremità insondabile di cui è imbevuta la creatura umana. "Con tutto il cuore, tutta l'anima, tutte le forze": stiamo viaggiando ai bordi dell'umano, Gesù ti chiede di abitare i confini dell'eterno, di rompere paralleli e meridiani e di sederti sul ciglio del mondo.
Stasera fatti un regalo. Guardati allo specchio e dillo a te stesso: "Complimenti, questo sono io, mi piaccio". Solo dopo saremo attrezzati per amare anche il prossimo.
pensiero scritto da don Marco Pozza
permesso alla pubblicazione gentilmente concesso dall'autore
suggerito da don Leonardo
"Complimenti, questo sono io, mi piaccio".
Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
(Salmo 138, 13-15)
La luce
La luce fa miracoli, aggiunge, cancella, riduce, arricchisce, sfuma, sottolinea, fa diventare credibile e accettabile il sogno, il fantastico, suggerisce trasparenze, dà miraggio alla realtà.
(Federico Fellini)
Michelangelo Merisi da Caravaggio,
Cena in Emmaus - Pinacoteca di Brera, Milano.
La luce attraverso la propria caratteristica di illuminare o adombrare gli oggetti e gli esseri viventi, riesce a renderci suggestivi effetti espressivi, e molti dei grandi Maestri dell'Arte in passato come nel presente, se ne sono serviti per accentuare la potenza espressiva delle loro opere.
Per Michelangelo Merisi detto il "Caravaggio", la luce è diventata una sorte di ossessione. Il Caravaggio infatti cercò di analizzare la luce sotto ogni suo aspetto, sia materiale che spirituale, cercando di scoprirne i segreti più nascosti, e mettendo queste sue conoscenze su tela. Le sue opere hanno infatti una potenza espressiva unica, dove la luce è il linguaggio visivo principale, ed attraverso essa, l'artista vuole rappresentare la realtà cruda e semplice, come la vedrebbero i nostri occhi.
Nel famoso dipinto "Cena in Emmaus", la luce di questo Artista, è profondamente realistica. Il pittore ha fissato sulla tela un fatto preciso, di particolare intensità emotiva. Dal fondo buio, emergono i personaggi investiti dalla luce, che ne modella le fisionomie descrivendo con cura tutti i particolari del quadro, che sono resi con straordinaria verosimiglianza pittorica.